Volendo studiare le tradizioni dei primi del Nove- dove grandi pentoloni contenevano salsicce, costine,
cento della cucina tipica di questa zona, cucina
carne di maiale bollita e altro e che venivano consumati
tanto ricca e tanto varia, per valorizzarne appieno
in piedi, accompagnati da birra e crauti, Trieste vantava
i molteplici aspetti, non bisogna dimenticare che Trieste,
la tradizione delle “mussolere”: i molluschi che vi si
crogiolo di etnie e punto di convergenza di influssi cul-
vendevano, i mussoli (Arca Noae), venivano raccolti
turali esterni, ne è stata il fulcro. In quel periodo infatti,
lungo la costa settentrionale dell’Istria tra Isola e Pirano
Trieste ebbe un ruolo internazionale in molte discipline
e poi distribuiti nei vari punti di vendita in città tra cui
scientifiche, nell’industria, nel commercio, nella politica;
Cavana, via C. Battisti, San Giovanni, S. Giacomo dove,
fu notevole punto di riferimento della Mitteleuropa, ma
piuttosto che cotti, venivano aperti al vapore dopo esser
conservò anche influssi greci, arabi, spagnoli, ebraici
stati coperti da un sacco bagnato. L’operazione era di
ecc. e ne ricevette dei nuovi. Questi influssi sono ancora
breve durata onde evitare che le “vesciche” del mollu-
oggi testimoniati nel campo della gastronomia.
sco si asciugassero troppo e perdessero così il loro con-
D’altronde, nello stesso periodo, pur facendo parte
tenuto d’acqua di mare, elemento essenziale per esaltare
dell’Impero austro-ungarico, Trieste guardava all’Italia
il sapore del mussolo. Questa modalità di vendita dei
quale madre culturale, ma rimaneva un po’ tagliata fuori
mussoli, di cui ancora la città di Trieste è ghiotta, non è
dai suoi territori. Anche l’Istria, che dall’Isonzo-Vipacco
oggi più praticata sia perché una moria verificatasi nel
al corso superiore del Timavo, a Fiume avrebbe poi for-
1948-’50 ha trasformato questi molluschi un tempo ab-
mato la Venezia Giulia, le rimaneva parzialmente estra-
bondantissimi in una merce rara, sia perché le precau-
nea da un punto di vista territoriale. Si deve tener conto
zioni igienico-sanitarie, imposte dopo il colera del 1973,
infatti che la ferrovia Pola-Trieste era stata progettata più
ne hanno fatto un’attività difficilmente sostenibile in ter-
per fini militari che civili: essa collegava la piazzaforte
navale con l’interno dell’Impero, mantenendosi lontana
Gli anni di Svevo sono quelli delle “mussolere” e della
dalla costa per non esporsi ad incursioni dal mare. Que-
bora che soffiava forte, gli anni del “giornal dul peto”
sta ferrovia quasi evitava l’Istria. La “parenzana”, che
(ci si riparava dalle folate mettendo un giornale tra la
avrebbe invece potuto sopperire a questa separatezza di
camicia e la giacca), gli anni del ‘29, della gran crisi, del
Trieste da quello che ancora oggi viene considerato il
gran freddo, della cioccolata, gli anni del grande com-
suo naturale hinterland, entrò in funzione solo nel 1902.
mercio di “zibibe” (uva passa) con il Sud e con la Gre-
Ecco quindi che la Trieste di Svevo, la Trieste dei cantie-
cia, gli anni della grande intellettualità di Trieste. Secon-
ri, dei commerci e delle assicurazioni, nata solo duecen-
do l’abitudine austro-ungarica, il “caffè” era il luogo di
to anni prima da un paese di 5.000 abitanti, in prevalen-
ritrovo: lì si scambiavano esperienze, lì venivano elabo-
za ortolani, salinari e piccoli artigiani, conserva ancora il
connotato di corpo provinciale separato: le manca un’ef-
Il fattore forzante essenziale dell’alimentazione triesti-
fettiva base agroalimentare, condizione essenziale per
na di quei tempi era il freddo, freddo nell’aria e freddo
elaborare una storia gastronomica. Così la cucina triesti-
nell’acqua, ed è a questo che la mensa si doveva ade-
na accoglie, accosta, adatta, rielabora, ma non crea, non
guare. Con la bora, i viali e gli androni diventavano cu-
può creare. Questa a-territorialità della Trieste dei primi
nicoli di vento. Alle sue fredde folate e alla conseguente
anni del 1900 non poteva poi non modificare anche le
dispersione di calore determinata dalla ventilazione, si
abitudini giornaliere. La gente che viene dal mare o che
rispondeva con calde e dense minestre e con il prosciut-
scende “a giornata” dalla periferia in città, spesso non
può portare con sé la merenda che il contadino reca nei
È difficile pensare al ‘29 senza ripari e senza il fuoco
campi o l’artigiano consuma a casa propria, salendo dal-
delle cucine a legna che inondava di calore gli apparta-
la bottega al piano superiore. Nasce così in città una fit-
menti dai corridoi lunghi e freddi. L’interruzione del
ta rete di punti di ristoro dove soprattutto marinai e sca-
rifornimento della legna aveva poi indotto il Comune di
ricatori vanno a fare il “rebechin”, da “ribeccare”, becca-
Trieste ad istituire degli scaldatoi pubblici. In quelle
re due volte prima del pranzo: la prima colazione, con-
giornate la prima colazione consisteva in un caffè lungo
sumata in ore antelucane e, appunto, il “rebechin”. Que-
o turco con le “sope”, pezzi di pane inzuppati. Meglio
sto richiamo della prima colazione veniva effettuato in
ancora il “Kaisershnazzen”, dolce a base di uova stra-
diversi modi. Oltre ai vari buffet di origine napoleonica
pazzate e marmellate aspre di frutti di bosco, inventato
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pare dallo stesso Francesco Giuseppe, o la torta povera,
La “calandraca”, piatto di carne di montone castrato in
fatta di avanzi di pane; e poi via con la bora alle 10, or-
umido, che secondo il Pinguentini era comune nell’anti-
mai mattina inoltrata, quando, come si è detto prima, il
ca cucina di bordo e avrebbe tratto il nome dalla “calan-
“rebechin” era d’obbligo. Con “Una vita”, “Senilità”, “La
dra”, tipo di barca medievale. Obbligatoriamente la cuci-
coscienza di Zeno” ecco sollevarsi memorie di vento e
na del pesce era di origine istro-veneta o dalmata. Già
di crauti, di ombrelli rivoltati, di sottane sollevate e so-
negli anni sveviani è comune la preparazione del pesce
prattutto di odori che il vento trascina attraverso il cana-
in “busara”, piatto di origini quarnerine, pietanza il cui
le che mette in contatto le pianure centroeuropee con il
nome potrebbe intendersi come “busiara”, ossia “bugiar-
Mediterraneo. Porta fredda che si apre sul caldo, aspra o
da”, in quanto utilizza gli scarti del pescato o pescato
dolce a seconda del viaggiatore che la percorreva.
non impeccabile, oppure forse derivato dal nome della
Il poco che la terra circostante forniva arrivava in città
pentola di coccio nella quale i pescatori di scampi cuci-
ogni mattina con lo strizzare d’occhio della “pancogola”,
navano il pasto, e che poi esponevano sulla coperta o
la donna servolana che offriva il suo pane lievitato nella
appesa alle sartie delle loro cocce.
notte, scherzando sul nome di “ossi de morto” derivato
Il baccalà in rosso con le patate è molto simile a tutte
dalle forme dello stesso, o con la faccia affaticata e ru-
quelle ricette del mangiar povero che ad un tocco di pe-
gosa della “juzza”, la contadina del Carso: sul capo por-
sce univano polenta, patate o gnocchi o pasta per fare
tava i prodotti del campicello e le rare pannocchie colti-
un pasta completo quando “iera bubana”, cioè quantità
vate senz’acqua e con fatica nelle doline, umili derrate
e benessere, mentre invece in carestia “iera solo mine-
che facevano capire quanto duro fosse il produrre e
stra de piron”, un semplice primo piatto di pasta o gnoc-
l’approvvigionarsi a Trieste, città senza entroterra. Il ma-
chi. Trieste, il freddo: i grassi, a parità di peso, fornisco-
re però era tra i più ricchi del Mediterraneo e dalla costa
no il doppio delle calorie degli zuccheri, ma gli zuccheri
istriana, a Barcola, a Sistiana, a Grado, già allora centro
danno calorie di pronto impiego. Ecco allora i dolci, di
di villeggiatura della borghesia dell’Impero, l’acqua bat-
tradizione mitteleuropea ma anche veneziana, come
tuta dai remi e percorsa dalle vele di mille bragozzi for-
“Presnitz”, “strucoli”, “putiza”, “pinze”, “Coch”, “fritole”,
niva dai sardoni (acciughe) al tonno, la cui tratta veniva
“Cugulhupf”, “Kipfel”. Ecco le sinfonie gastronomiche
praticata lungo tutta la costa orientale dell’Adria, fino al-
che accompagnano questo diamante incastonato in una
la costiera triestina tra Miramare e Sistiana. La tratta non
terra aspra e senza risorse, bianca come i templi greci e
era una mattanza, era una pesca meno sanguinolenta,
rossa per il sangue di tante battaglie e per il Sommaco,
più pulita, a cui partecipava cantando tutto il paese. Le
arbusto che d’autunno inonda di colore l’altopiano carsi-
rive non profumavano solo di pesce, ma di spezie, di
co. Svevo la vedeva così la sua città con le sue incon-
caffè, di legno, di catrame, di canapa. Sono questi i pro-
gruenze, la sua enorme debolezza, la sua fragile forza,
fumi di questa città che potrebbe esser definita la prefe-
col suo timido aprirsi verso la meraviglia del Mediterra-
rita di Eolo. È la città che tutto pulisce e che, schiva, lec-
neo, che non le apparteneva ma verso cui era irrimedia-
ca dentro di sé le ferite di tante guerre amare e di tante
delusioni subite negli anni. È la città della non identità,
GIULIANA FABRICIO
perché delle tante identità, città violentata dall’esterno,
ma poi tacita amante che accoglie chi le ha fatto violen-
Così Svevo doveva vedere la sua città, eterogenea e
multietnica anche in cucina, con le “frize” (ciccioli dimaiale), il Liptauer (formaggio guarnito), i “rodoleti de
PICCOLO GLOSSARIO
persuto” (rotolini di prosciutto di Praga con un cetrioli-no sottaceto), i “sardoni in savor” (sardoni in concia d’a-
I nomi dei dolci sono intraducibili se non con:Presnitz: rotolo di pastasfoglia ripieno.
Così, tornando a casa dal caffè, pregustava il “brodo
Strucoli: arrotolati di pasta non lievitata ripieni di
brustolà” (brodo abbrustolito), piatto della cucina pove-
ra triestina, o gli “gnocchi de susini” (gnocchi di prugne)
Putiza: dolce tipico del Carso a base di cioccolata.
che fungevano da primo piatto o da dolce, per innalzare
Pinze: dolce pasquale di pasta lievitata.
poi il pensiero davanti alla “jota”, irripetibile piatto tipi-
camente triestino a base di fagioli, crauti e patate del
Kipfel: lunette dolci con mandorle. Fritole: frittelle di Carnevale.Coch: budino dolce cotto a bagnomaria.
Altri influssi trae la cucina triestina di quel tempo, so-
prattutto dalla ricca comunità greca che ha molto dato.
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